Freaks Out

 


Avevo buone aspettative per l’ultimo film di Gabriele Mainetti. Aspettative dovute al buon esordio in un lungometraggio con l’ormai celebre “Lo Chiamavano Jeeg Robot”, un film che proponeva un modo diverso di fare cinema in Italia. Pur rimanendo chiara la sua origine, per temi e modi provava, riuscendoci, a reinterpretare a modo nostro le storie di supereroi tanto in voga dall’altra parte dell’oceano, quindi attendevo Freak Out con tutte le buone intenzioni.

Sì, perché era lecito aspettarsi un innalzamento dell’asticella. Non la medesima riproposta di quanto già visto, ma un’espansione di ciò che è stato. In parte questo è avvenuto, non solo perché si tratta di un’opera corale, ma anche perché dal minutaggio, dagli effetti, dalle scenografie, dall’investimento fatto dalla produzione e da quell’aria un po’ più internazionale che gli si richiedeva si può capire come il film sia un’evoluzione. Purtroppo il tutto non riesce ad amalgamarsi alla perfezione.

Matilde, la giovane capace di emettere scariche elettriche con il solo tocco, è la figura principale, ma protagonisti lo sono anche Fulvio, l’uomo lupo; Mario, il magnete vivente; e Cencio, il ragazzo con la capacità di comandare gli insetti. Meno riuscita, invece, la figura del loro mentore, un Giorgio Tirabassi che avrebbe meritato più spazio per affezionarcisi davvero. Tutti i primi sono membri del circo del secondo, Israel, unico loro sostentamento, unico loro spazio in una Roma sotto l’assedio nazista nella quale, per loro natura, sarebbero comunque stati dei reietti.

Si potrebbe vedere il tutto in questa chiave, della rivalsa degli emarginati, oppure come film di
denuncia verso il fascismo imperante, rappresentato da Franz, complesso quanto tormentato antagonista, ma sarebbe il focus sbagliato. Anche perché, questo focus, a volte è sfuocato.

Freaks Out è un ibrido, di generi e di pubblico a cui si rivolge. Il suo voler essere fondamentalmente favola si scontra a volte con le scelte e le ambizioni del duo Mainetti/Guaglianone, rispettivamente regista e sceneggiatore, nonché, il primo, co-autore delle musiche. Alcune scene sembrano essere state inserite per sfizio, più che altro, in altre occasioni si ha invece la sensazione che ne manchino, che il collante tra quello appena accaduto e l’azione dopo del protagonista sia stato tagliato in post-produzione. Ed è qui che si scorge l’ambizione di Mainetti, di chi avrebbe dovuto avere più minutaggio a sua disposizione per presentare il proprio materiale, ma che avrebbe richiesto un film ancora più lungo o, addirittura, suddiviso in due parti. E se già lo sforzo produttivo è stato tanto, di più non ce lo si sarebbe potuto permettere.

Personalmente ho apprezzato questa ambizione, così come capisco che alcune scelte di cui prima rientrino in un discorso di autorialità – su tutte le scene di gore e quelle sessualizzate in un prodotto perlopiù per ragazzini –, ma forse sarebbe stato meglio rifinire qualcosa di più alla portata del cinema italiano in questo momento.

In definitiva, non lo ritengo un completo passo falso, piuttosto un’occasione dalla quale si passa
per crescere. Nonostante tutto trovo che i più piccoli e anche qualche adulto possano apprezzare l’opera, che spero venga vista, perché rappresenta un tentativo di andare oltre di cui c’è bisogno.

Rimango con un leggero retrogusto amaro in bocca, ma aspetto comunque con fiducia il prossimo film di Gabriele Mainetti.

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